Passeggiata nel Ghetto di Roma: tra storia e curiosità all’ombra del Portico d’Ottavia
Mai come in questo periodo di paura e di privazioni si sente forte il desiderio di muoversi e di viaggiare. Provando a guardare il “lato positivo”, questa forzata immobilità può diventare un’opportunità per scoprire – o ri-scoprire – la propria città. Chi vive a Roma non si può davvero lamentare: il materiale che la Caput Mundi ci offre fa invidia davvero a chiunque!
Il nostro vagabondare questa volta ci porta in un luogo pieno di fascino: il ghetto ebraico. Una sorta di enclave dove imperioso si sente il pulsare di una storia ancora recente.
Scopriamolo insieme.
Da dove ha origine la parola “Ghetto”
Attualmente il termine ghetto viene usato per indicare un luogo di emarginazione, separazione e spesso porta con sé una connotazione dispregiativa, riconducibile allo stato di degrado e abbandono in cui versano alcuni luoghi.
Tuttavia l’origine della parola ghetto risale a oltre 500 anni fa, al veneziano “getto” che identificava il luogo in cui sorgevano le fonderie e, per l’appunto, si gettavano gli scarti delle produzioni.
Qui dopo il 1492 si trovarono a convivere gli ebrei, costretti dai re di Spagna Ferdinando di Castiglia e Isabella di Aragona ad abbandonare il Paese qualora non avessero scelto di convertirsi al cristianesimo. Nel 1516 si stabilì che la comunità ebraica, diventata nel frattempo sempre più numerosa, risiedesse obbligatoriamente nella località del ghetto.
La legge stabiliva che “tutti li Zudei che de presente se attrovano abitar in diverse contrade de questa città, debbano abitar unidi”.
Questo momento di fatto sancì quell’emarginazione che da sempre aveva accompagnato la figura dell’ebreo, non del tutto accettato dalla comunità.
Il ghetto era dotato di cancelli, porte e ponti che ne impedivano l’entrata e l’uscita durante le ore notturne. Il crescere della popolazione e l’accoglienza riservata ad ebrei provenienti da altre parti del mondo portò i ghetti ad essere incapienti e a quel punto l’unica soluzione divenne alzare di un piano le case preesistenti: questo il motivo dell’insolita espansione in altezza delle case veneziane nel ghetto.
Il ghetto di Roma
Circa 40 anni dopo la nascita di quello veneziano Papa Paolo IV, con la bolla Cum nimis absurdum, revocò tutti i diritti concessi agli ebrei romani ed ordinò l’istituzione del ghetto di Roma.
Una piccola città inglobata nel centro storico, tra la riva del Tevere dirimpetto all’Isola Tiberina e la zona del Teatro Marcello, inizialmente dotata di tre portoni che rendevano inaccessibile l’ingresso dal tramonto all’alba. Agli ebrei per volere papale saranno imposte inoltre una serie di restrizioni. Ad esempio sarà vietato agli ebrei possedere immobili: questo causerà ovviamente il degrado e l’incuria degli edifici, e d’altro canto contribuì a far sì che gli ebrei si rivolgessero a beni mobili come oro e denaro. Potranno dedicarsi solamente al commercio degli stracci e questo segnerà la loro attività prevalente nei secoli a venire.
Dalla segregazione al sovraffollamento il passo è breve: per questo molte case vennero rialzate o ampliate, con il risultato di edifici strettamente addossati gli uni agli altri, e frequentemente comunicanti con passaggi interni ed anche esterni: i cosiddetti “passetti”.
Dopo l’unità di Italia e la designazione di Roma capitale nel 1870 il ghetto venne definitivamente abolito; molti edifici vennero demoliti e venne stabilito un nuovo assetto del quartiere.
Il 16 ottobre del 1943
Per secoli il ghetto di Roma ha convissuto con la storia della città fino all’arrivo di Napoleone che i ghetti li aveva completamente aboliti. Quando le diversità e le emarginazioni sembravano un lontano ricordo arrivarono però il nazismo in Europa ed il fascismo in Italia. Per seguire le direttive di Hitler, Mussolini promulgò nel 1938 le leggi razziali: le conseguenze furono drammatiche.
Nel Ghetto di Roma la data da ricordare – e che viene ribadita proprio con un’iscrizione accanto al Portico d’Ottavia – è il 16 ottobre del 1943. All’alba, più di mille di persone vennero trascinate alla stazione Tiburtina per essere poi deportate ad Auschiwtz. Tornarono solo in 16.
Le pietre d’inciampo
Proprio per ricordare le vittime dell’Olocausto, ci si può imbattere in alcuni sampietrini davvero particolari: si tratta delle “pietre d’inciampo”, lastre di metallo con inciso il nome di coloro che trovarono la morte nei campi di sterminio. Non solo ebrei ma anche deportati per motivi razziali, politici, militari.
Installate dal 1995 in tutta Europa dall’artista tedesco Gunter Demnig (a Roma se ne contano oltre 300), queste pietre sono piccoli monumenti, un vero e proprio “inciampo” nella memoria: per non dimenticare mai.
Cosa vedere nel Ghetto di Roma: il Portico d’Ottavia
Punto di riferimento nel Ghetto di Roma è il Portico d’Ottavia, monumento da cui parte la strada principale del ghetto che da esso prende il nome.
Ampia e ricca di attività commerciali, Via del Portico d’Ottavia è la via del passeggio e luogo di ritrovo della comunità che, seppur dispersa nei vari quartieri di Roma, non si è mai staccata del tutto da questo nucleo centrale. Ma la storia del Portico d’Ottavia ha origini ancora più antiche. La costruzione fu eretta in luogo del “ Portico di Metello” tra il tra il 27 ed il 23 a.C. per volere di Augusto che lo dedicò alla amata sorella Ottavia.
Incendi, crolli e ricostruzioni hanno rimodellato il grande quadriportico: nell’antichità includeva i templi di Giunone Regina e di Giove Statore, due biblioteche e una grande curia. Poi andò in rovina fino al Medioevo, quando divenne sede del mercato del pesce. Sul portico si trova la seguente iscrizione in latino.
“Debbono essere date ai Conservatori (del Campidoglio) le teste di tutti i pesci che superano la lunghezza di questa lapide, fino alle prime pinne incluse”
Gli antichi romani erano ghiotti della zuppa che si otteneva con le teste dello storione. Per questo, probabilmente, era un privilegio dei Conservatori poter avere le più grandi teste di storione.
La vendita ittica fu spostata in un’altra piazza solo nel 1885 ma dell’antica e famosa “pescheria” è rimasta anche un’altra traccia indelebile. La chiesa edificata nel 770 a partire dal propileo di ingresso del Portico d’Ottavia – inglobandone tre colonne corinzie – venne nominata Sant’Angelo in Pescheria, proprio per la contiguità al mercato del pesce.
Il Museo Ebraico e la Sinagoga
Alla memoria della storia degli ebrei è dedicato il Museo Ebraico, che ha sede negli ambienti sottostanti la splendida Sinagoga che troneggia sul Lungotevere di fronte all’isola Tiberina.Il Tempio Maggiore è un edificio monumentale a base quadrata sormontato da una cupola rivestita in alluminio: è stato inaugurato nel 1904 raccogliendo l’eredità delle altre sinagoghe del vecchio quartiere di cui ha accolto alcuni arredi sacri.
Cosa mangiare al Ghetto ebraico di Roma
Passeggiando per il Ghetto di Roma, tra le viuzze strette e ricche di storia, non si può non cedere ai profumi di questi luoghi. Panifici, pasticcerie e ristoranti attirano inevitabilmente l’olfatto per un incontro ravvicinato con le prelibatezze della cucina giudaica.
Per chi ama il salato, c’è l’Antico Forno Urbani – dal 1927 (Piazza Costaguti) dove assaggiare pizza bianca, pizza rossa romana, focaccia e ottimi cantucci.
Per uno spuntino dolce, con la famosa crostata ricotta e visciole, ci si può fermare alla Pasticceria Boccione (via del Portico d’Ottavia 1, senza insegna). Assolutamente da assaggiare è la pizza ebraica che – a dispetto del nome – è dolcissima: croccante fuori ma morbida all’interno, ricca di canditi, mandorle e uvetta! Un peccato di gola di cui non ci si pente!
Se si ha più tempo e più fame, da non perdere sono i carciofi alla giudia. Si tratta di carciofi fritti due volte nell’olio bollente e aperti come fossero rose spampanate, da gustare con le mani petalo dopo petalo.
Curiosità linguistiche nel ghetto ebraico: “sciamannata”
Non è del tutto accertato, ma il termine “sciamannato” potrebbe avere origine dallo sciamanno, capo che gli Ebrei dovevano portare in alcuni paesi cristiani per distinguersi ed essere immediatamente riconoscibili. Gli uomini lo indossavano sul capo, le donne invece come scialle.
Si trattava di fatto di un telo, a volte uno straccio, probabilmente indossato di malavoglia così da dare l’impressione di una persona sciatta, disordinata. Quella che oggi per i romani di Roma è, per l’appunto, una persona “sciamannata”.